ALESSANDRA, GIOVANNI BOLDINI & LA FRITTATA CON GLI AGRETTI

Ha tutte le caratteristiche per risultare antipatica: due lauree, alta, bella, raffinata, intelligente, colta…
E invece, cavoli, è anche simpatica.

Piacevolissima nella conversazione, gentile e disponibile, Alessandra Gennaro è da qualche tempo diventata il mio capo: lei tiene online delle splendide lezioni di storia dell’arte e io le faccio -orgogliosamente- da sguattera.

In che senso? Preparo le presentazioni per le conferenze e i pdf con le opere trattate. Pdf che diventano “quaderni” per gli appunti, dedicati agli allievi.

I miei, di appunti, ve li riporto qui sotto.
Anche se faccio finta che li abbia stilati Boldini.


IN PRIMA PERSONA: GIOVANNI BOLDINI

PROLOGO

Ero bruttarello e alto poco più di un metro e mezzo.
Più che i miei autoritratti, lo dimostrava il carboncino in cui l’amico Degas mi aveva rappresentato.

Eppure io mi consideravo un figo.
Del resto, il mio successo con le donne lo dimostrava.

Facevo il pittore.
Di sicuro avete sentito parlare di me: Giovanni Boldini.

Sono nato il giorno di San Silvestro, anno 1842.
Ferrara, la mia città, era allora dimora di artisti cultori del Quattrocento, insomma seguaci del Purismo.

Anche mio padre -Antonio- era un pittore.
Anzi, un pittore/restauratore.

È dal suo studio che ho sottratto il materiale con cui ho realizzato il mio primo un atelier nel granaio dei casa.
“Che c’è di strano?” direte “Anche Steve Jobs ha creato la Apple partendo dal garage”.
Di strano c’è che, allora, io non avevo più di cinque anni.

Quattordicenne, ho dipinto il mio autoritratto.
E a quel punto, il genitore ha avuto la piena conferma del mio talento.

Lo devo ammettere, la mia vita è stata costellata di colpi di “lato B”.

Primo, sono stato riformato dal servizio militare, e ho potuto così dedicarmi a ciò che più mi piaceva.

Secondo, ho ricevuto la discreta eredità di uno zio morto senza discendenza.
Soldi grazie ai quali ho lasciato Ferrara, che mi stava tanto ma tanto tanto stretta.

Mi sono quindi trasferito a Firenze per frequentare l’Accademia di Belle Arti.
Ed è qui che la mia storia è veramente iniziata.

.

FIRENZE 1862-1866

Il capoluogo toscano pullulava a quel tempo di gruppi artistici spesso progressisti, anche se a volte un pochino casinari.

I Macchiaioli, per esempio: gente senza un manifesto, pittori che non si erano mai presi sul serio fino in fondo.
Ragazzi che si incontravano al caffè Michelangiolo, in via Cavour.

Per un po’ li ho seguiti, mutuando dal loro stile, soprattutto, le corpose pennellate e la capacità di rappresentare la luce.
Nel 1866, con loro, ho addirittura partecipato all’esposizione Promotrice Fiorentina guadagnandomi un bell’articolo in cui Telemaco Signorini mi definiva “brillante”, “di un merito non comune” e “innovatore”.

Le mie opere di questo periodo?
Il Ritratto di Lilia Monti, presentato all’esibizione dei Macchiaioli: vi si ritrovano il loro sfondo uniforme, pochi colori, la pennellata densa.
I Ritratti di Alaide Banti, in cui incominciavo a tratteggiare la stanza circostante.
L’amatore delle arti, anch’esso ambientato come i precedenti, carico di dinamismo e di tensione.
E, soprattutto, il Ritratto di Diego Martelli (1867), l’unico “sobrio” dei Macchiaioli, colui che di me aveva scritto “lo gnomo vi inviluppa, vi sbalordisce, vi incanta, le vostre teorie se ne vanno, ed egli ha vinto”. Qui Diego è piegato verso l’osservatore, in una posa anomala. Il punto di vista è ribassato, lo sfondo non uniforme. Lasciatemelo dire senza falsa modestia: si tratta di una raffigurazione decisamente originale.

Non so se ve ne siate accorti: ma su molte delle pareti che ho dipinto, certo non come imbianchino, ho appeso dei quadri, spesso miei.
In questo ho ispirato l’amico Telemaco Signorini per i suoi Aspettando e Non potendo aspettare.
Beh, sono soddisfazioni.

Frequentare i talenti più vivaci e le personalità più in vista mi ha permesso di tessere una rete di conoscenze che mi si è rivelata utilissima.

I Falconer, per esempio, nobili inglesi proprietari di una villa vicino a Pistoia, villa che mi è stato chiesto di affrescare.

Poco importa se, alla fine, il mio sodalizio con loro si è deteriorato e se quegli affreschi sono stati coperti con l’intonaco: i Falconer si sono rivelati il terzo colpo di fortuna della mia vita.

Sono stato amico di entrambi.
Lei era senza dubbio una generosa mecenate.
Ma è stato lui, nel 1867, invitandomi all’Esposizione Universale, a farmi innamorare di Parigi.

Dimenticavo. Con Isabella Falconer sono stato in Costa Azzurra.
Qui, nel 1868, ho dipinto Ritratto di Generale spagnolo: uno sfondo rosso cupo che evidenziava non solo i capelli scompigliati e il volto stanco, ma anche i gradi e l’importanza dell’ufficiale. Questa è un’opera che mi ha dato grande fama, ed è piaciuta moltissimo a un altro aristocratico inglese.
Quarto colpo di…

LONDRA 1870 – 1871

Soprattutto grazie alla protezione dell’inglese di cui sopra, signor Cornwallis-West, durante il mio soggiorno a Londra fioccarono le commissioni.

Erano quadri di piccolo formato, per i quali mi ispiravo a ritrattisti inglesi del XXVIII secolo come Thomas Gainsborough.

Ma, alla fine, anche Londra mi annoiò, e non potei far altro che ritornare alla vita brillante della mia adorata Ville Lumière.

PARIGI 1871 -1879

Così, fu di nuovo Parigi.
Fu Positivismo.
Furono musei, scoperte scientifiche.
Furono boulevard, grandi parchi, locali alla moda, sale da ballo, teatri.
Fu la luce elettrica e il riappropriarsi, grazie a essa, dello spazio e del tempo.

Furono di nuovo occasioni fortunate.

Abitai in case lussuose nei quartieri più chic, con una modella/amante giovanissima e bella.
Avevo amici artisti con cui discutere al Café de la Nouvelle Athènes, proprio quello degli Impressionisti.
E avevo incontrato Adolphe Goupil, mercante d’arte aggressivo e astuto che mi proiettò nel firmamento francese.

Berthe, splendida Berthe, tenera musa e compagna!
Ti ho declinata in innumerevoli pose, toilette, ambienti ed espressioni.
Ricordi?
Berthe che guarda un ventaglio, in cui indossavi abiti moderni in una stanza antica.
Simile a una damina in Berthe esce per una passeggiata.
Ammiccante, con note rosse, in Sulla panchina al Bois: un quadro che, per il tuo atteggiamento nonostante la giovane età, alla critica proprio non è andato giù.
Berthe che fuma: in cui eri stravaccata, discinta, quasi volgare.

Alla fine, purtroppo, anche il nostro rapporto si è esaurito.
Tu hai passato il testimone a Gabrielle durante una Conversazione al caffè.
Tutto vi allontanava l’una dall’altra: la posa, gli abiti, il tavolino.
E io, questo, l’ho riportato sulla tela.

In quegli anni, sotto l’egida di Goupil, ho partecipato a diverse esposizioni, frequentato la Parigi più esclusiva, guadagnato il guadagnabile.

E tentato di avvicinarmi al vedutismo.
Lo giuro, ci ho provato sul serio: con La Senna a Bougival, con Strada maestra a Combes-la-Ville.
Non era quello, però, il mio stile.

Così, sono tornato a dipingere ritratti.

Ero divenuto un pittore à la mode: non perdevo un’occasione mondana, e i borghesi facevano a gara per farsi ritrarre da me.

Io, naturalmente, li accontentavo facendoli apparire bellissimi, inserendoli in ambienti lussuosi (L’amica del Marchese, Due signore col pappagallo).
Nei miei quadri, la donna diventava quella femme fatale capace di dominare sessualmente l’uomo.

La mia era forse ironia?
Purtroppo no.
Solo sfacciata adulazione.

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GABRIELLE DE RASTY 1879 – 1890

Era destino che finisse, la mia collaborazione con Goupil.
Era destino che finisse anche la mia storia con Berthe.
Era destino che, nella mia vita, entrasse come un ciclone Gabrielle.

Spregiudicata e provocante, la contessa de Rasty non si è mai sottratta al fuoco di questa nostra relazione.
Nè ai dipinti che hanno documentato il nostro rapporto e la passione che ci legava.

Sensualissima Gabrielle, che in Primizie portava alle labbra una fragola di cui pareva di avvertire la dolcezza.
E che, abbracciando il cagnolino ne L’amico fedele, lasciava immaginare la morbidezza delle curve del proprio corpo.

Gabrielle, che assumeva pose provocanti anche nelle opere più castigate, come i tanti suoi ritratti.

E che non si è tirata indietro, nemmeno di fronte ad allusioni dichiaratamente erotiche.
Come ne La contessa de Rasty a letto, in cui ho fatto emergere il suo volto dallo sfondo, cosa che avevo imparato dai Macchiaioli.
O ne La lettura sul letto, privo di dettagli eppure ugualmente impudico.
E, soprattutto, ne La toilette, in cui appariva addirittura scandalosa, sicura di sé al punto da farsi ritrarre mentre si asciugava le parti intime: in un invito sfrontato e volgare.

I CAVALLI

Guardate il dipinto La corsa di cavalli a Longchamp di Manet: bellissimo, sì, ma fotografico e, se vogliamo, un pochino antiquato.

E osservate il mio.
Quel cielo livido, i cavalieri che diventano tutt’uno con i cavalli, le linee oblique che squarciano la tela.
Ma, soprattutto, il senso del movimento.
Ditemi poi se non ci vedete il Futurismo.

Ho adorato i cavalli.
Sono stati per me un’ossessione.
Tra il sedere di una ragazza e quello di un purosangue, vi giuro, ho sempre preferito quest’ultimo.

Quanti ne ho rappresentati!
Tesi e contratti durante la corsa in Due cavalli bianchi.
Trasformati in larve leggerissime in Ritorno dei Dragoni in caserma.
Quasi un’esplosione di movimento, con scarse macchie di colore, in Uscita da un ballo in maschera. Un’immagine che potrebbe tranquillamente essere definita impressionista.

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I RITRATTI

Con la pittura, per me, è sempre stato come con le donne.
Sperimentavo tutto.
Ma non c’era niente da fare.
Ritornavo sempre a loro, ai ritratti.

Ho rappresentato sia maschi che femmine.

Tra i più famosi, un ritratto maschile: quello di Robert de Montesquiou, il conte dandy sostenitore – insieme ad altri intellettuali- non solo di una fuga dalla realtà con l’aiuto di alcol e droga, ma anche dell’avanguardia artistica del tempo.

E, poi, innumerevoli immagini di donne.
Donne in pose statiche, in equilibrio precario, in movimento.
Con uno sfondo ricercato ed elegante, come quello del Ritratto di Madame Charles Max, oppure striato di lunghe pennellate e dematerializzato come nei ritratti della Marchesa Luisa Casati.

Signore fasciate in elegantissimi abiti che io stesso sceglievo.
Abiti che stiravo, stropicciavo, facevo cadere e muovere in mille modi diversi.
Abiti colorati di nero, di bianco, di grigio, di giallo, di rosso, di rosa.

Donne che dipingevo mentre camminavano nel mio atelier (sì, proprio quello che avevo rilevato da Sargent dopo lo scandalo di Madame X).
Donne con il décolleté e le spalle scoperti, le caviglie ostentate, le scarpine sottili e luccicanti.

Donne che facevo parlare per ore e ore, prima di iniziare il mio lavoro.
Alla ricerca di un’anima che forse non sono mai riuscito a svelare.

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LA REGINA DI SICILIA

Ma chi era la più bella?
Donna Franca Florio, naturalmente.
Grandissima signora, in tutti i sensi.

Per ritrarla ho lasciato Parigi alla volta di Palermo.

Indossava un abito nero accollato e una lunghissima collana. Trecentosessantacinque perle: si diceva che per ognuna di esse lei avesse versato una lacrima, a causa di quel marito “fimminaro” che tanto l’aveva fatta soffrire.

La raffigurai con una profonda scollatura, e provocai le ire del gelosissimo consorte.
Il ritratto fu rifiutato e rimase nel mio studio per oltre vent’anni.
Divenendo così parte della mia vita.

Nelle pause dal lavoro, mi ci sedevo davanti e guardavo quella donna dai capelli nerissimi, il corpo sottile, la pelle chiara, le labbra vermiglie.
Giravo lentamente il cucchiaino nel caffè, e sorridevo a quell’accenno di sorriso.
Prendevo in mano il pennello, e le scoprivo poco alla volta le braccia, le spalle, le caviglie.

Alla fine, socchiudendo le palpebre, mi allontanavo di qualche passo per vedere il risultato.
Mi immergevo nella tristezza di quegli occhi grigi.

E mi chiedevo se, in un’alta dimensione, Donna Franca l’avrei potuta amare.

EPILOGO

Il XX secolo avanzava, portandosi via non solo lo sfavillio della Belle Époque, ma anche il mio desiderio di dipingere e la mia vista.

Ciononostante, ho continuato a viaggiare, a ricevere onorificenze.

Avevo quasi novant’anni quando ho sposato Emilia, giornalista trentenne, autrice della mia biografia.

Me ne sono andato l’11 gennaio 1931.

Avrei potuto essere tumulato a Parigi, al cimitero del Père-Lachaise, tra le tombe degli artisti più illustri.
Invece ho scelto diversamente.

E sono ritornato a Ferrara.


Questo articolo è ispirato alla lezione dedicata a Giovanni Boldini, tenuta online il 2 dicembre 2021 da Alessandra Gennaro.
Mi scuso per eventuali errate interpretazioni, scorrettezze, omissioni. E, soprattutto, per le divagazioni frutto della mia fantasia.


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“QUADERNO DEGLI APPUNTI”


LA FRITTATA CON GLI AGRETTI
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LA FRITTATA CON GLI AGRETTI

Agretti, altrimenti detti barba di frate. Giuro che non li avevo mai visti né sentiti nominare. Li ho scoperti da Loretta, la fattoria biologica presso la quale mi servo da qualche tempo. Sono bellissimi, e mi hanno stupito per il loro sapore leggermente acre. Nella frittata, credetemi, hanno il loro perché.
Preparazione15 min
Cottura15 min
Porzioni: 2 persone

Equipment

  • Una pentola per sbollentare gli agretti
  • Una padella antiaderente da 28 cm per la cottura della frittata

Ingredienti

  • AGRETTI o BARBA di FRATE (quantità a piacere)
  • 20 g OLIO EXTRA VERGINE di OLIVA
  • 4 UOVA medie
  • 30 ml LATTE
  • 40 g PARMIGIANO grattugiato
  • SALE

Istruzioni

  • PULISCO gli AGRETTI, li LAVO, li SBOLLENTO per qualche minuto in acqua leggermente salata. Li SGOCCIOLO bene e li TAGLIO a pezzetti.
  • A PARTE, sbatto le UOVA con il LATTE, il PARMIGIANO grattugiato, il SALE (anche se la mia nonna sosteneva che le uova non vanno salate prima della cottura per evitare che la frittata indurisca).
  • RISCALDO sulla fiamma la PADELLA con l'OLIO, aggiungo gli AGRETTI e li faccio SALTARE per qualche istante.
  • UNISCO le UOVA sbattute con gli altri ingredienti.
  • CUOCIO prima un lato, poi giro la frittata aiutandomi con un piatto o un coperchio e TERMINO la COTTURA dell'altro lato.
  • SERVO la frittata calda.
  • È MOLTO BUONA anche a temperatura ambiente, tagliata a quadrotti e servita con della valeriana, oppure in un panino.
  • GLI AGRETTI già sbollentati e non utilizzati possono essere congelati e usati in seguito.

Note

AGRETTI o BARBA di FRATE (salsola soda): è una pianta appartenente alla famiglia Chenopodiaceae. È una specie di piccole dimensioni, annuale, e possiede foglie e fusto succulenti. È una pianta alofita, e in quanto tale richiede dei suoli ricchi di sale; cresce abitualmente nelle zone costiere ed è originaria del bacino del Mediterraneo. (Da Wikipedia)

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4 Comments

  • comment-avatar
    Marina 21 Gennaio 2022 (18:47)

    5 stars
    Grazie mille per questo bellissimo racconto; ho rivissuto la conversazione di Alessandra da un’altra angolazione… ed ho avuto modo di scoprire altre pagine e ricette tue, altrettanto interessanti. La tua conoscenza è un altro regalo di Alessandra, a cui ho almeno 120 motivi (+ 1!) di esser grata. Buona serata.

    • comment-avatar
      Pane per i tuoi denti 21 Gennaio 2022 (18:56)

      Carissima Marina,

      che cosa si può rispondere a messaggi come questo?
      Sono senza parole.
      E senza fiato.

      Grazie davvero!
      A presto.

      Valeria

  • comment-avatar
    Manu 17 Gennaio 2022 (11:08)

    Che meraviglia ascoltare Alessandra e leggere adesso questo tuo riepilogo della vita di Boldini mi ha fatto rituffare in una magica atmosfera❤️grazie

    La tua frittata di agretti, che qui non trovo mai, poi è assolutamente invitante
    Un abbraccio Manu

    • comment-avatar
      Pane per i tuoi denti 17 Gennaio 2022 (12:06)

      Grazie di cuore, carissima Manu!!!

      Frequentare Alessandra è un arricchimento continuo.
      E conoscere le sue amiche un grande piacere.

      Un abbraccio anche a te.

      Valeria

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